Sono le 15, e un silenzio tipico di quell’ora avvolge la mia anima, passo dopo passo. Cammino quasi per inerzia, come se non sapessi dove stessi andando, ma in fondo la mia meta la conosco, la conosco bene.
Davanti a me si allunga una salita che sembra infinita, ogni passo la fa apparire più ripida. Il sole, in pieno luglio, scalda la testa un po’ troppo, ma è normale, mi ripeto, sarebbe strano il contrario. Vi capita mai di attraversare strade che trasformano il vostro umore? Strade che vi catturano per la bellezza dei dettagli che le definiscono? Questa è una di quelle vie.
Qui, tra il verde del parco e le palazzine che si ergono sull’altro lato, si trova un piccolo campo da basket, incastonato in un angolo. In estate, questo angolo prende vita: ragazzi e ragazze che si passano una palla logora, voci, risate. È come se diventasse il cuore pulsante di tutto il parco.
Ma oggi è diverso. È presto o forse è solo un giorno speciale, non so. Non c’è nessuno. Solo un ragazzo, immerso nella sua solitudine, con la stessa determinazione di una nonna che infila il filo in un ago, cerca di fare canestro. Mi fermo e lo guardo. E penso: quanta fatica e quanta costanza gli è costata fino a quel momento? E quanta ancora ne servirà?
Da quell’attimo è nata un’idea: un’illustrazione semplice, ma estremamente potente. Un ragazzo, una palla, e un canestro.
Un ragazzo, una palla e un canestro. Questo è il nome della mia illustrazione. È il pensiero che lo sport, e in questo caso il basket, sia un viaggio individuale, un impegno che facciamo per noi stessi, in solitudine. Uso il basket come metafora, ma è un’immagine adattabile a qualunque altro percorso: l’obiettivo davanti a noi, e tutta la dedizione che mettiamo per arrivarci.